Anselmo Grotti Tutte Chi ha paura dell’intelligenza artificiale? Il lavoro prossimo venturo

Chi ha paura dell’intelligenza artificiale? Il lavoro prossimo venturo



[Corsi; Digitale; Notizie]

Sono lieto di incontrare gli studenti di *Laurea Magistrale dell’Università di Siena* iscritti al corso di *Filosofia del lavoro e delle organizzazioni* (prof. Stefano Brogi) per un seminario su *DIGITALE E LAVORO* al tempo della Intelligenza Artificiale e della Rete.

Riporto un passaggio dal mio Connessi e in relazione:

Produrre, predare, predire (e provocare)

Quale futuro stiamo preparando? Le teorie liberiste sostengono la tesi dello “sgocciolamento”: il progresso tecnologico ed economico porta benefici in primo luogo a chi sta in cima alla piramide sociale, però poi arriva a tutti. Reagan amava citare una analogia marinara: con l’alta marea si sollevano sia gli incrociatori che le barchette. Non era vero a suo tempo e lo è ancor meno oggi: dal dopoguerra al 1980 c’è stata in effetti una certa riduzione delle diseguaglianze sociali, però da quaranta anni a questa parte la tendenza si è invertita con una velocità sempre maggiore. È uno dei motivi principali che stanno mettendo in crisi le socialdemocrazie, incapaci di ridefinirsi in uno scenario mutato, mentre i conservatori riescono a far credere inevitabili i loro privilegi. Come hanno messo in luce, tra gli altri, gli studi di Piketty[1], la diseguaglianza non è solo una ingiustizia sociale, è anche un blocco allo sviluppo.

La rivoluzione digitale, per come si è realizzata, ha le sue responsabilità. Alcuni studiosi dipingono scenari a tinte decisamente fosche[2], collegando Silicon Valley e diseguaglianza crescente, digitalizzazione e regressione. In particolare Durand sostiene che il cyberspazio viene trattato come ambiente da cui estrarre i dati, centralizzando il controllo e realizzando una economia fatta di oligopoli neofeudali – in cui il potere regolamentato tramite le istituzioni pubbliche si indebolisce a vantaggio di gruppi privati[3].

Il digitale provoca una trasformazione radicale, nella quale il punto centrale dell’economia non è più la produzione, ma un binomio che possiamo sintetizzare come predazione e predizione. La rivoluzione dei dati trasforma il concetto stesso di produzione: tuttavia le nostre categorie mentali rimangono per lo più ancorate alla sua interpretazione classica. Il baricentro dell’economia si è spostato sul consumo, ma il consumo, al tempo del digitale, è allo stesso tempo produzione. Quando guardo una serie su Netflix consumo un prodotto, ma genero allo stesso tempo tutta una serie di dati: i miei gusti, le mie caratteristiche, le mie modalità di pagamento, i miei dati personali, e così via. Se navigo in rete o posto qualcosa nei social produco tantissimi dati, e così via. Singolarmente presi questi dati sono poco significativi se non irrilevanti: per questo non ci allarma che siamo acquisiti dalle varie piattaforme. Poiché però il digitale consente un monitoraggio sempre più invasivo, la loro aggregazione e l’estrazione di costanti e di modelli, ecco che il valore diventa potenzialmente enorme. Questa è quella che possiamo chiamare predazione dei dati: un bene fondamentale per la società dell’informazione. A cosa serve la predazione dei dati? A livello del singolo utente ci sono ricadute piacevoli: le piattaforme imparano a proporre beni e servizi sempre più in linea con gli specifici desideri e bisogni del cliente. Secondo Durand è a questo punto che si compie il passaggio tra due realtà molto contigue: quello da utente a servo della gleba. Paghiamo la comodità del servizio con una perdita di libertà e autonomia, offriamo al signore il piccolo mannello di grano che verrà accumulato assieme a tanti altri in enormi silos informatici. In cosa consiste la perdita di autonomia? Nel fatto che la predazione dei dati è funzionale alla predizione dei comportamenti. Più a fondo conoscerò anche i dettagli delle scelte e delle reazioni di un soggetto, più mi sarà facile predire il suo comportamento. E, sapendolo predire, saprò anche provocare un comportamento a me gradito piuttosto che un altro, non vantaggioso o addirittura per me dannoso. Kotkinm vede il ritorno delle caste feudali: gli aristocratici di allora sono i ricchi oligarchi di adesso; i chierici di un tempo sono oggi quanti occupano posizioni di privilegio nei media, governi, università, professioni della new economy.  Il terzo stato invece, oggi come allora, è costituito da quanti non hanno speranza di mobilità sociale, mobilità che in una certa misura era stata invece possibile nei decenni del welfare state tra il dopoguerra e il 1980.


[1] T. Piketty, Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Milano 2020, ma anche il precedente Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Firenze 2014.

[2] Ad esempio C. Durand, Techno-féodalisme. Critique de l’économie numérique, Zone 2020. La copertina del libro riporta la miniatura di un servo della gleba intento a raccogliere spighe di grano con un falcetto. È trasparente il richiamo alla raccolta di dati nella società tecnologica. Grano e dati che non andranno a colui che li raccoglie, ma si accumuleranno nei granai e nei data center dei signori feudali e neofeudali.

[3] Così anche J. Kotkinm, The coming of Neo-feudalism. A warning to the global middle-class, Encounter Books, 2020.

1 thoughts on “Chi ha paura dell’intelligenza artificiale? Il lavoro prossimo venturo”

lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *