[Cittadinanza; Notizie; Pace; Video]
Qual è il ruolo dei media per la pace? E’ possibile una comunicazione che cerchi di comprendere i fatti quando c’è una guerra di aggressione in corso? Ne ho parlato assieme a Michele Zanzucchi, giornalista e scrittore, già direttore della rivista “Città Nuova”, docente di comunicazione presso l’Istituto Universitario Sophia e alla Pontificia Università Gregoriana.
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L’incontro si è svolto sabato 29 aprile presso l’Auditorium “Aldo Ducci” (sala Montetini) in via Cesalpino 53, ad Arezzo.
L’iniziativa è a cura della Comunità dei Focolari di Arezzo e del gruppo Obiettori per la Pace di Arezzo
L’argomento del nostro incontro è: in questi tempi in cui il mondo vive una “terza guerra mondiale a pezzi” e la comunicazione ha assunto il ruolo di “arma strategica”, il convegno vuole indagare la funzione che i media possono svolgere per agevolare i processi di pace. È possibile un cambiamento del linguaggio che favorisca l’incontro delle verità? È possibile arrivare ad una narrazione dei fatti che dimostri che c’è un’altra logica, possibile e necessaria, alternativa alla guerra?
Il mondo si è fatto molto complesso, per l’estensione degli spazi coinvolti, la quantità di informazioni, la potenza distruttiva delle armi, la diffusività e la manipolabilità del digitale. La mediazione giornalistica è inevitabile, non potendo avere esperienza diretta delle cose. Più il mondo è complesso più la mediazione è indispensabile. Siamo come sottomarini che viaggiano in acque profonde: non possiamo semplicemente guardare da un oblò. Dobbiamo affidarci alle informazioni che ci giungono dai sensori disposti dappertutto attorno e dentro il sottomarino. Se sono stati progettati male, non funzionano, sono manipolati o male interpretati la navigazione può diventare molto pericolosa.
Ci nutriamo di informazioni, e la tossicità delle parole si scarica nei nostri organismi. la tecnologia degli ambienti informativa è neutra. I design tossici di molte piattaforme digitali sono costruiti per catturare tempo e attenzione delle persone, enfatizzando gli aspetti conflittuali, emotivi, scandalistici e di puro intrattenimento. Così facendo scaricano nell’ambiente una sorta di “CO2 informazionale” che genera hate speech, senso di inadeguatezza, camere dell’eco, teorie del complotto. A livello politico sono messi in discussione le stesse “regole del gioco”: non si perdono le elezioni, ma si grida alla loro falsificazione, come accade in grandi Paesi quali gli Usa e il Brasile. A livello antropologico si disperde la capacità di attenzione e si occupa militarmente il tempo delle persone assieme al loro immaginario mentale. A livello politico si consolida l’idea che il conflitto – di per sé inevitabile – abbia come unica soluzione la guerra, La spesa militare globale nel 2022 ha toccato la cifra record di 2.240 miliardi di dollari:
Se le decisioni in democrazia sono prese con il consenso della maggioranza c’è da chiedersi in che modo questa maggioranza costruisce le proprie convinzioni, di quali informazioni si nutre per esprimere un giudizio, di quali sensori dispone per impostare la rotta.
Specialmente per quanto riguarda la guerra. “Quando scoppia la guerra, la prima vittima è la verità”, ha detto il senatore americano Hiram Johnson nel 1917. Nella storia del giornalismo di guerra, abbiamo conferme e smentite di questa frase: . Da William Howard Russell, che descrisse le terribili condizioni della guerra di Crimea sulle pagine del “Times”, alle file di giornalisti, fotografi e cameraman che catturarono la realtà della guerra in Vietnam, Ci sono eroismo e coraggio, ma anche collusione, censura e insabbiamento.