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“Una generazione di bambole e robot”?



[Notizie; Corsi]

Nel 1981 il cantautore Alberto Camerini presenta Rock’n’Roll Robot, che inizia così “Se il mondo ti confonde, non lo capisci più,/ se nulla ti soddisfa, ti annoi sempre più/ scienziati ed ingegneri hanno inventato già/ una generazione di bambole robot”. Martedì 15 novembre si chiude il ciclo di cinque incontri a Uniel Arezzo sul tema “La Rivoluzione Digitale”. Parleremo di robot, intelligenza artificiale, algoritmi.

Viviamo in costante relazione con assistenti virtuali (Alexa, Siri, ecc.), con simulacri digitali (metaverso, ologrammi), con svariate tipologie di robot (industriali, di assistenza alla persona, qualcuno – lo vedremo – ci si sposa anche), Ma soprattutto ci affidiamo agli algoritmi e alla loro capacità di estrarre da enormi quantità di dati predizioni sul futuro: come andrà la Borsa, come prevedere e stimolare gli acquisti e le opinioni, che decisioni prendere, cosa guardare e quali partner incontrare, come prevedere atti di criminalità e così via. Se un algoritmo decide quale notizia o quale video su You Tube propormi (basandosi sulle mie scelte precedenti), perché non potrebbe suggerirmi anche dove cenare, cosa fare, quale partner incontrare, cosa pensare? Ma gli algoritmi sono oracoli? Possono sbagliare, condividere pregiudizi con gli umani, essere razzisti? Si possono conciliare digitale e umanità, algo-ritmi e cardio-ritmi?

Se è un dato da tempo acquisito che la contrapposizione tra natura e tecnica è inconsistente, poiché la natura dell’uomo è per essenza prometeica l’artificio, è anche vero che il modo con cui la tecnica si sviluppa nel tempo pone sempre nuove domande e nuove prospettive. Una cosa erano le macchine meccaniche (il mulino, la locomotiva), un’altra le macchine automatiche (i termostati, i sistemi di navigazione, i computer), un’altra cosa ancora le macchine autonome (il machine learning, che va dall’autonomia nell’ambiente spaziale ai sistemi d’arma autonomi, dalla gestione finanziaria a quella della logistica, e così via).

Noi incorporiamo tecnologie nei corpi: neuro protesi (abilità cognitive), nano robot (riparare danni da malattie), cuori bionici. Potremo «mettere Google nei cervelli»[1]. C’è chi teme che smetteremo di essere “noi” per diventare “loro”. Macchine che pensano come uomini, purché questi si decidano a pensare come macchine.

Al momento almeno restano alcune differenze. I sistemi esperti non trovano la relazione causa/effetto, sanno interrelare, ma non rintracciare una causa. Noi abbiamo una fine (e lo sappiamo), la macchina no, come racconta P. Dick. È la differenza tra funzionare ed esistere[2], una differenza che implica una serie di conseguenze per i singoli individui (antropologia, ne abbiamo parlato sinora), ma anche per come si relazionano (politica) e organizzano la loro sopravvivenza (economia).

Solo per citare un esempio riguardo alla politica, non essendo questo il luogo per una trattazione estesa: in che rapporto stanno sovranità analogica e sovranità digitale? Più in particolare, come conciliare il diritto (anche internazionale) a tutela delle minoranze con la logica dei big data che tendono a rafforzare le maggioranze? Le recenti tragiche vicende internazionali hanno reso evidente a molti quanto finora era preoccupazione solo dei più informati. Ma la questione si pone anche a livello intrastatale.

Cito come esemplificazione il caso degli algoritmi predittivi utilizzati in ambito penale. Il sistema giuridico è prescrittivo: prende decisioni e le motiva secondo un principio di causalità. L’algoritmo invece procede sul principio di correlazione. Il pensiero razionale e scientifico si è strutturato su ipotesi da verificare tramite esperimenti capaci, se confermate, di generare modelli teorici coerenti. Se i dati superano una certa soglia di quantità e complessità possono essere analizzati senza avere nessuna ipotesi circa il loro significato. La correlazione è sufficiente. Dopo aver condannato per secoli come fallace il sofisma del “post hoc, propter hoc” stiamo operando una sua rivalutazione, naturalmente a patto che non si tratti di casi isolati ma di big data adeguatamente addomesticati da algoritmi sofisticati.

Naturalmente la procedura è tutt’altro che banale e fallace. La capacità di avere a disposizione un gran numero di informazioni, adeguatamente gestite, ha ad esempio un forte rilievo come supporto delle decisioni mediche, ma entro certi limiti. Alcuni studi[3] mettono in evidenza che affidarsi unicamente a dati quantificabili porti a errori di valutazione medica. È certamente utile studiare la percentuale di successo in terapie comparate, ma come tenere conto di fattori difficilmente quantificabili, come il desiderio di guarire che pure riveste un ruolo importante? Sistemi algoritmici funzionano anche in campo artistico. Mosaic è un algoritmo che trova connessioni formali tra i quadri del Metropolitan di New York con quelli del Rijksmuseum di Amsterdam (è realizzato dal Mit di Boston e da Microsoft). Il data mining rappresenta una sorta di “santo Graal” capace di realizzare meraviglie. Ma connettere è solo il primo passo per “mettere in relazione”. Le connessioni formali tra dipinti non sono ancora in grado di ritrovare in esse un significato[4].

Nel campo giuridico la questione si fa ancora più delicata, almeno se riteniamo importante la salvaguardia dei diritti individuali. L’enorme produzione di dati sia nel web 2.0 (sociale) che 3.0 (Internet delle cose) obbliga a elaborare nuovi strumenti legislativi. Nel 2018 lo scandalo di Cambridge Analytica è stato solo il primo caso di manipolazione dei dati a fini politici. Gli algoritmi non sono realtà neutre, ma disposizioni di potere che rimodellano la nostra società. Gli artefatti tecnologici «hanno a che fare con la politica», come scrive nel 1980 Langdon Winner[5]. Ha scritto Morin «La Realtà si nasconde dietro le nostre realtà»[6]. Parcellizzare la realtà in tante realtà è una modalità di manipolazione e controllo. Piuttosto è vero che “tutto è connesso”, come ripete papa Francesco. Ce lo hanno dimostrato l’invasione in Ucraina, le tante guerre nel globo, e la pandemia. E a proposito di pandemia, sempre Morin quasi quarant’anni fa aveva inutilmente ammonito sul fatto che nel fragile mondo globalizzato «la vittoria di un virus sull’immunologia umana si ripercuote immediatamente in cinque continenti»[7].

La percezione della realtà di un sistema automatico, per quanto esperto, sembra differire da quella umana, allo stesso tempo più fragile e più profonda. Possono certamente sfuggirci molti dati, ma al tempo stesso l’osservatore umano è capace di retroazione, si modifica assieme al modificarsi dell’oggetto osservato. Come diceva Romano Guardini, l’occhio umano “si sbaglia e si corregge”, la macchina fotografica no[8].


[1] Cfr. S. Levy, Rivoluzione Google: i segreti dell’azienda che ha cambiato il mondo, Hoepli Editore, Milano 2012.

[2] M. Benasayag, Funzionare o esistere?, Vita e Pensiero, Milano 2019. Per Benasayag l’IA costruisce artefatti che, per quanto connessi in rete, non condividono gli stessi processi dell’esistenza, il cui tempo non è compiutamente descritto dal tempo lineare del funzionamento.

[3] Buhmann, Paßmann e Fieseler 2019  https://link.springer.com/article/10.1007/s10551-019-04226-4

[4] Cfr. per questa sezione anche A. Grotti, Connessi e in relazione. Possibili futuri delle nostre vite al tempo della Rete, Ave, Roma 2021.

[5] L. Winner, Do Artifacts Have Politics?,  in “Daedalus, Modern Technology: Problem or Opportunity?”, CIX (1980), n. 1, pp. 121-136.

[6] E. Morin, Lezioni da un secolo di vita, Mimesis, Milano 2021.

[7] E. Morin, Pensare l’Europa, Feltrinelli, Milano 1988, p.98.

[8]https://www.laciviltacattolica.it/articolo/note-per-un-pensiero-incompleto/?ct=t%28Newsletter_quaderno_4120%29&mc_cid=6dc4164576&mc_eid=8e66113a78&utm_source=pocket_mylist#_ftn5

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